seduzione e desiderio nel teatro della natura
La bellezza salverà il mondo, dice il candido principe Miškin ne L'idiota di Fëdor Dostoevskij e la sua, più che una profezia, suona come una preghiera, proferita in un mondo dove egli non può impersonare né la forza né la competizione. E nel mondo naturale, dove il successo (innanzitutto riproduttivo) sembra premiare soltanto la forza, la preminenza fisica e la capacità di sopravvivere, che ruolo può avere la bellezza?
Stranamente, pochi anni prima che Dostoevskij componesse il suo capolavoro, Charles Darwin, scrivendo all’amico botanico Asa Gray, si era lasciato sfuggire una frase che, ancor più stranamente, avrebbe fatto un imprevedibile connubio con la preghiera di Miškin: La vista delle penne del pavone, quando lo guardo, mi fa star male. Di certo non un fastidio estetico, quanto semmai teorico: il pavone infatti, con la sua iperbolica, irragionevole ruota policroma, sembra aprire una vistosa crepa nella grande (e allora recentissima) architettura della selezione naturale. Certo, si può sostenere, senza inferire il minimo colpo all’edificio di cui sopra, che la ruota del pavone non sia un semplice ornamento, pura ostinata bellezza, ma piuttosto un referto medico in rachidi e barbule, le sue ocellature complessi indici immunitari, la simmetria caudale un test di infestazione parassitaria e la lunghezza delle penne, ovviamente, un’attendibile valutazione sulle qualità genetiche del portatore. Insomma, la pavonessa non guarda…diagnostica! Da inveterata genetista piumata, da biochimica arguta, in possesso di misteriosi algoritmi in grado di decifrare, in un battito di membrana nittitante, informazioni che farebbero impallidire il più attrezzato dei laboratori molecolari. E tutto questo, al fine di scegliere il migliore dei patrimoni genetici disponibili sul mercato locale dei partner!
Qualcosa però non convince, o almeno non convince il pensiero libero e autonomo di Darwin, nella cui mente si fa strada l’idea di un’altra forza evolutiva, più oscura, più carnale, più ambigua e di certo più sconveniente: la selezione sessuale. E da lì a poco, nel 1871, con The Descent of Man, Darwin rompe i ranghi del determinismo adattativo introducendo la possibilità che, oltre alla lotta per la sopravvivenza, esista anche una lotta per il desiderio. Una battaglia meno epica, ma ugualmente potente; una battaglia combattuta con le armi affilate del desiderio, in cui le femmine scelgono tra i maschi quelli più belli, più attraenti, più seduttivi. Il maschio canta, si pavoneggia, danza, si esibisce; la femmina guarda. E poi sceglie. E nel suo scegliere, plasma l’evoluzione.
Ma qui Darwin tocca un nervo scoperto dell’Inghilterra vittoriana dell’epoca: affermare che le femmine scelgano attivamente i maschi sulla base di un gusto estetico significa dare loro una voce biologica. Un potere creativo. Una sovversione! Viepiù, in una congiuntura storica scossa dalle rivendicazioni delle suffragette. Non di meno, la teoria della selezione naturale, con la sua enfasi sulla competizione e sulla sopravvivenza del più adatto, finisce per armonizzarsi fin troppo bene con la retorica dell’espansionismo coloniale britannico. Diventa una sorta di passaporto scientifico per giustificare la supremazia dell’uomo bianco e l’inevitabilità dell’Impero. In questa pomposa sinfonia di efficienza evolutiva, la bellezza gratuita, frivola, effimera e per di più non misurabile, stona fin troppo clamorosamente con il comune sentire.
Negli anni che seguono, con la selezione sessuale di Darwin solidarizzano altre teorie, come quella della cosiddetta fuga fisheriana, (Ronald Fisher, 1930) secondo cui una preferenza sessuale può co-evolvere con un tratto ornamentale maschile, innescando un circolo vizioso di selezione: più il tratto è vistoso, più viene scelto; più viene scelto, più si amplifica nelle successive generazioni, anche a scapito dell’adattamento funzionale.
In anni molto più recenti, con L’evoluzione della bellezza (2017) di Richard O. Prum, ornitologo e pensatore eretico, questa idea riceve una rinnovata dignità scientifica. Prum riprende il filone interrotto e lo conduce alle sue estreme conseguenze. Per lui, la bellezza non è un sottoprodotto dell’adattamento, ma una forza evolutiva autonoma. L’ornitologo americano rilancia la teoria darwiniana della selezione sessuale estetica, sostenendo che molte forme di bellezza animale (danze, colori, canti) si siano evolute non perché utili, ma perché desiderate. La scelta delle femmine, guidata dal gusto e non dall’adattività, può deviare dall’ottimizzazione darwiniana classica e generare tratti gratuiti, talvolta persino svantaggiosi. Prum afferma così che l’evoluzione non è solo lotta e sopravvivenza, ma anche piacere, libertà, soggettività.
D’altro canto, perché un corallo, cieco e immobile, dovrebbe tingersi di porpora o di turchese? Perché una spugna marina dovrebbe sfoggiare l’arancio acceso di una tela fauve o il viola cupo di un crepuscolo, pur non potendo contemplarsi?
Forse, la risposta più onesta è che non sempre la bellezza ha bisogno di uno spettatore. Forse la bellezza, nella sua forma più radicale, non nasce per piacere o per sedurre, ma per il semplice fatto di esistere.
Hannah Arendt ci parla della bellezza come ciò che non ha bisogno di essere utile per essere vera, e che per questo è libera. Alcune forme e alcuni colori della natura, sembrano nascere per il solo fatto di potersi esprimere. Come se la natura, al di là della sopravvivenza, talvolta sentisse il bisogno di creare l’inutile, l’eccedente, il gratuito.
In questa luce, la bellezza si affranca dal dovere di servire a qualcosa e si offre come un atto primario, una scelta morale senza vantaggio diretto, come se l’evoluzione stessa, a tratti, potesse essere gentile.
Non un messaggio, dunque, ma un’intenzione. Non un calcolo, ma un gesto.
Immanuel Kant, nel Critica del giudizio, osserva che il piacere estetico è disinteressato: non nasce dal desiderio di possesso, né da un’utilità nascosta. È una sorta di sospensione, un’epifania che irretisce senza nulla promettere.
E Oscar Wilde, con geniale paradosso, rilancia così: La bellezza è l’unica cosa contro cui la forza del tempo è vana. Le filosofie cadono, come fa il crepuscolo; ma la bellezza resta come una gioia per tutte le stagioni.
In entrambi, il filosofo e il dandy, la bellezza è sovversione, è ribellione contro l’utile. È il dolce sussurro dell’inutile che, proprio per questo, riconnette all’essenziale.
Forse anche la penna di un pavone, o un corallo cieco, testimoniano che non tutto ciò che sopravvive è direttamente vantaggioso e che la natura non è solo arena ma anche teatro. Forse, veramente, la bellezza disubbidiente salverà il mondo anche senza saperlo…